TEATRO E DANZA

La Roma di Pino Strabioli

Conduttore, attore e regista teatrale, vive al centro storico ma la sua infanzia l’ha trascorsa al Pigneto “quando era ancora una zona popolare”

Nato “per caso” nelle Marche, a Porto San Giorgio, Pino Strabioli è romano di fatto. “Papà dei castelli, mamma di San Lorenzo”, cresce in Umbria ma con l’eterna nostalgia per Roma, dove torna comunque ogni fine settimana – dai nonni, al Pigneto, “quando era zona popolare” – e dove si trasferisce a 18 anni “con il desiderio di fare l’attore”. Il primo appartamento in affitto a Subaugusta, davanti casa di Eros Ramazzotti, piena di gente il giorno dopo la sua vittoria a Sanremo, nell’86, e per strada “gli striscioni, le bandiere, tutti che urlavano per questo ragazzo nato ai bordi di periferia”. Come lui, che poi però inizia a conoscere un’altra Roma, quella dei salotti e dei teatri nelle cantine, dei pomeriggi a casa del poeta Dario Belleggia e delle passeggiate notturne con Gabriella Ferri, “che ogni volta voleva portarsi a casa un pezzo di Roma e rubava sempre un sampietrino”. “Una continua scoperta” l’altra faccia della città, anche se nel cuore ancora oggi ha “le giostrine di piazza Malatesta, l’odore di quel quartiere e del cortile del palazzo di nonna”.

L’ultimo anno e mezzo è stato complicato anche per la tv. Il ritorno a teatro, però, ha sicuramente un sapore diverso, non è vero?
“Assolutamente. In questo anno e mezzo ho continuato a fare la tv e la radio, anche nel mese in cui ho avuto il Covid, ma il ritorno a teatro è stata un’emozione assoluta. Ho ridebuttato a Firenze con il mio omaggio a Paolo Poli, poi a Roma all’Off Off di via Giulia e al Sala Umberto. E tornerò in scena a Roma con un testo scritto da Maurizio Costanzo, ‘Abolite gli armadi, gli amanti non esistono più’. Avremmo dovuto debuttare il 7 marzo del 2020, poi c’è stato il lockdown. Saremo all’Off dal 21 dicembre al 6 gennaio”.

All’Off sei di casa…
“Sono di casa perché ho un’amicizia antica con Silvano Spada, il direttore artistico dell’Off. A lui devo moltissimo. Partecipai al Festival di Todi quando era direttore, nell’88, venne a vedermi Brando Giordani e iniziai il mio rapporto con la Rai, con Unomattina, agli inizi degli anni ’90. Silvano è un pezzo della mia vita e poi ha aperto questo teatro che è davvero bellissimo, nel cuore di Roma”.

La tua città, anche se sei nato a Porto San Giorgio.
“Sono nato il 26 luglio nelle Marche, per caso, ma sono romano a tutti gli effetti. Mio padre dei castelli, di Colonna, mamma nata e cresciuta a San Lorenzo, in una via che non esiste più. Ogni volta che prendo il taxi chiedo sempre di via della Ranocchia, ma dopo i bombardamenti è proprio sparita. Mio padre era militare e sono cresciuto in Umbria perché stava in una caserma lì, a Orvieto. Tutti i weekend però tornavo a Roma, fin da bambino. E’ stata sempre la mia città e la città della mia famiglia”.

Un’infanzia tra l’Umbria e San Lorenzo?
“No, nel quartiere che adesso va di moda ma che un tempo era zona popolare: all’inizio della Prenestina, attaccato al Pigneto. Con mamma prendevamo il treno da Orvieto e arrivavamo a Roma, passavamo a piedi davanti Santa Maria Maggiore, il mercato di piazza Vittorio, poi prendevamo il 19 che ci portava a casa di nonna. Da bambino nonno mi portava alle giostrine di piazza Roberto Malatesta e mi faceva fare tante passeggiate lì intorno, a guardare i villini. Mi ricordo anche il mercato, davanti al cinema New York. Mi pare si chiamasse così. Ogni tanto facevamo delle incursioni a Colonna, i nonni paterni non li ho mai conosciuti ma c’erano i miei zii. Quella parte la lego alla vendemmia, ci arrivavano queste casse d’uva, le bottiglie di vino”.

Quando sei tornato in pianta stabile?
“A 18 anni, dopo la maturità. Ho lasciato Orvieto e sono tornato a Roma da solo. Avevo questa nostalgia della città, che mi ha sempre trasmesso anche mia mamma. Lei coltivava il desiderio di tornare, ogni anno pensava che ci saremmo ritrasferiti a Roma, ma questo trasferimento per lei non è mai avvenuto. E’ morta a Orvieto. Mi sono iscritto all’università e presi una casa in affitto a Subaugusta, l’anno in cui Eros Ramazzotti vinse Sanremo (1986, ndr). Dividevo questo appartamento con un collega d’università, proprio di fronte casa di Ramazzotti. Mi ricordo la mattina dopo la sua vittoria, sembrava l’elezione di un presidente della Repubblica: gli striscioni, le bandiere, tutti che urlavano per questo ragazzo nato ai bordi di periferia”.

Anche tu eri un ragazzo di periferia…
“Certo. Io vengo dalla periferia. Quando andavo al Pigneto dai miei nonni non era mica il quartiere modaiolo di adesso, ma periferia piena. Dopo ho sempre vissuto in centro storico, a parte due piccole parentesi, una a Testaccio e l’altra a viale Trastevere”.

Oggi quindi vivi in centro?
“Sì. E cammino tanto. Ho una macchina che uso solo per andare a Saxa Rubra, dove registro Il caffè di Raiuno. Per il resto cammino. Alla sede Rai di viale Mazzini ci arrivo a piedi, anche alla radio, a via Asiago, fino all’ufficio di Maurizio Costanzo, a Prati, dove vado almeno una volta a settimana adesso perché stiamo preparando lo spettacolo e un nuovo ciclo di trasmissioni insieme. Ecco, lui è un altro pezzo di Roma, quella più disincantata”.

A proposito di pezzi di Roma, nel 2020 in ‘Grazie dei fiori’ hai raccontato Gabriella Ferri e Franco Califano, due simboli di questa città. Si trova ancora quella romanità lì?
“Delle tracce di quella romanità ci sono. Anzi, secondo me in qualche maniera ce ne stiamo riappropriando. Hai citato due nomi che avevano una visione straziante, ironica, dissacrante e poetica della città. Due giganti in questo. Però se oggi penso a Mannarino oppure all’Orchestraccia, mi trasmettono una romanità non tradita, conservata. La stessa Sabrina Ferilli ha delle pennellate di quella romanità che ci riporta alla nostalgia, a quei film in bianco e nero. Sì, quella romanità riemerge ancora”.

C’è quindi chi ha raccolto il loro testimone.
“Beh pensiamo a Gigi Proietti. Lui ha lasciato veramente un’eredità grande, di una Roma che non è solo un luogo comune. Ha travasato nei suoi allievi un senso di romanità nobile, però popolare”.

E Carlo Verdone?
“Carlo Verdone per me è Carlo Verdone. L’erede massimo di Alberto Sordi. Parliamo di un’altra unicità. E’ un altro di quelli che Roma la vive sulla sua pelle e la racconta, la ama in maniera viscerale, però ha uno sguardo tenero. La cosa che più mi piace di Carlo è la sua tenerezza intelligente che utilizza per raccontarci questa città”.

Negli anni ’80 hai iniziato con il teatro, nel ’92 arriva la tv. Era più semplice in quella Roma emergere nel mondo dello spettacolo?
“Era molto più semplice. Sono arrivato a Roma con il desiderio di fare l’attore. Ho fatto l’esame all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, bocciato subito. Quegli anni facevo delle performance al Piper, in giro per i locali. Per mantenermi ho fatto anche il cameriere in una creperie di Trastevere, si chiamava Il mago di Oz. Sempre in quel periodo ho scritto dei piccoli ritratti per L’Unità, poi feci questa scuola della Regione Lazio dove insegnava Michele Mirabella, con cui poi ho fatto delle cose in televisione, Patrick Rossi Gastaldi, con il quale ho iniziato a fare teatro in quelle che allora erano le cantine ma che avevano un grande senso. Il Teatro dell’Orologio è dove ho debuttato”.
 
Un’altra Roma…
“Era la Roma di Renato Nicolini, di Barbara Alberti, Roberto D’Agostino, Dario Belleggia. La Roma di Gabriella Ferri, una delle prime persone che ho voluto conoscere quando sono arrivato, perché mia mamma era innamorata di lei e mi aveva travasato questo amore. Era una Roma di grande fermento, alla fine degli anni ’80. Poi ho iniziato a fare televisione ed è cambiata la mia vita, ma quella Roma lì mi manca tanto”.

C’erano i salotti e c’era anche una cultura più artigianale.
“Esattamente. C’era il grande artigianato e la voglia di fare. Non c’erano i reality, non c’era questa corsa a fare gli attori e i cantanti a tutti i costi. C’era una curiosità che purtroppo un po’ si è spenta, anche se esiste tutta una nuova generazione di attori, romani e non solo, magari non conosciuti, ma che fanno un bellissimo lavoro di ricerca”.

Sarebbe bello rivivere quelle serate romane…
“Io avevo la cresta, una specie di punk alla romana (ride, ndr). Avevo le mie piccole trasgressioni, sempre attratto da personalità importanti. Quante cene e passeggiate notturne con Gabriella Ferri, che ogni volta voleva portarsi a casa un pezzo di Roma. Rubava sempre un sampietrino. Anche le serate con Patty Pravo erano indimenticabili. E poi ricordo i pomeriggi a casa di Dario Belleggia, in via dei Cappellari, piena di gatti. Un poeta che mi incantava. Era una continua scoperta per me, che da ragazzino conoscevo un’altra Roma, quella di piazza Vittorio e della Prenestina”.

La cosa più romana che ti viene in mente?
“Me ne vengono in mente tante. Una volta ero in scena, facevo un monologo molto delicato su Sergio Tofano. C’era una signora in prima fila che stava scartando una caramella, così ho detto: ‘Aspettiamo che la signora finisca’. Il marito mi fa: ‘Mbè? Aoh, s’a deve magnà sta caramella’. Come per dire ‘ce stai a rompe i co***'”.

In effetti la cosa più romana sono i romani…
“Questa spontaneità altrove è difficile da trovare. Io lo vedo anche dall’affetto del pubblico, che qui mi dà la pacca sulle spalle, mi ringrazia per le cose che vede”.

Il luogo del cuore?
“Il giardino degli Aranci. E poi le giostrine di piazza Roberto Malatesta, la mia infanzia. L’odore di quel quartiere, del cortile del palazzo di nonna. Anche se non ci sono più tornato. Mi manca quella zona di Roma che fa parte del mio passato”.

Roma come fonte di ispirazione. Tragedia o commedia?
“In questo momento in cui stiamo vivendo una grande tragedia come quella del Covid, che sembra non finire più, meglio prenderla come una commedia. Non a caso abbiamo citato Verdone, Alberto Sordi, Gigi Proietti. Meglio guardarla con occhio critico, sì, serio, ma con leggerezza. Altrimenti è un disastro. E poi Roma spunti per scherzarci su ne dà”.